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EDITORIALE

Brescia, ore 16.22, sabato 28 gennaio. Un pomeriggio così così.
Si rallenta al passaggio in centro al quartiere.
Un rombo alle spalle, potente. Il solito motociclista, posizione tipica da Harley, ma basta l’inconfondibile rombo a declinare il tipo della due ruote. Casco integrale, giubbotto in pelle, stessa marca della moto. Supera la mia macchina, e io penso: “ora accelera e chi lo vede più”. Invece si mette al passo, “zigzaga” qua e là. Sull’altro lato della strada parlano e passeggiano due pakistani, abiti tradizionali, zucchetto all’uncinetto.

Ed ecco la scena sconcertante. La mano sinistra del centauro si alza, mima una pistola, punta e fa il gesto dello sparo. Tre secondi, e poi via, scompare. Io rimango… scioccata. Mi chiedo in maniera ossessiva se quello che ho visto è reale.
Per una sciocchezza, mi si potrebbe obiettare, per un semplice gesto, alzi tanta polvere? Si, io la alzo quella polvere perché quel gesto non è casuale, non è una bravata, è solo una traslazione di quello che potendo, con la sicurezza di rimanere impuniti magari, si vorrebbe e si arriverebbe a fare.
Quanto vale quindi la vita di un uomo del sud del mondo, qui nel nord? È questo il segreto desiderio di pochi, di molti? Eliminazione fisica?

Oppure il gesto, cretino di per sé, è solo l’ennesima dimostrazione di uno dei tanti – non me ne vogliano gli appassionati di moto – super sbruffoni della Harley, quelli che vivono la moto “all’americana”?
No, io credo che il gesto sia stato pensato e voluto.
Troppo lenta, quasi parcellizzata, l’azione, quasi vi fosse la volontà vera di fare “pulizia”. Sporcano questi, rompono, puzzano, godono di benefici inimmaginabili. A tal proposito vorrei che uno dei soliti bene informati venisse davanti a me e che finalmente mi mettesse a conoscenza dei canali preferenziali che vengono usati nei confronti dei cittadini extracomunitari.

Forse il solitario motociclista pensa che sia il tempo di un nuovo tipo di ordine sociale, quello che rientra nella categoria “fai da te”. Una tentazione che in qualche parte del nostro Paese pare trovare sempre più radicamento.
Che ci sta a fare questo editoriale in un periodo di grandi tragedie mondiali, dalla guerra ai terremoti?
Ci sta.

Perché da un lato non vogliamo confini: siamo persino buoni, aiutiamo i terremotati, ci commuoviamo quando una telecamera scava fra le macerie.
In linea di principio tutti sposiamo l’articolo primo della carta dei Diritti dell’Uomo, poi scava scava, è solo in casa nostra che vogliamo muoverci senza confini. I confini noi li mettiamo davvero: solo per paura. Ecco perché il gesto “sceriffaro” dell’harleydavisoniano mi ha angosciata, prima di ogni cosa. Forse nella bisaccia della moto aveva un’intera collezione di Tex Willer.

I due pakistani immersi nella loro conversazione non si sono accorti del gesto, forse l’ho per puro caso notato solo io. Che sfortuna! Notoriamente sono una rompiscatole.

Ma quel gesto al di là dell’estemporaneità è estremamente grave, offensivo, segno dei tempi. Tempi duri per il nord del mondo che vive nei suoi confini, tempi durissimi per il sud del mondo che vive nei suoi confini, imposti proprio da noi e che trovano sintesi nell’aiuto estemporaneo “perché poverini i neri”, nella costante attività depredatoria a scapito della terza parte del mondo, nella consapevole convinzione che noi siamo la Cultura, la Conoscenza, i Depositari della Via.

Non può essere sempre così, dobbiamo iniziare nuovi percorsi perché il cretino dell’Harley, oggi fa un gesto con i pakistani, domani imbraccia la pistola e le prossime vittime potremmo essere noi solo perché la pensiamo in modo diverso.

Liberiamoci dai confini! Con coraggio.

m.r. z.


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